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Altamura, niente Emodinamica e sale sulle strade ghiacciate: infartuato 54enne rischia la morte

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Auguriamo al 54enne infartuato, con precedenti problemi cardiaci, una pronta guarigione, ma le condizioni in cui è stato costretto a operare l’equipaggio del 118 hanno dell’incredibile. Il fatto che il paziente non sia morto è merito della fortuna. Nella cronistoria vengono fuori due elementi essenziali. Da un lato l’assenza della Sala di Emodinamica all’ospedale della Murgia, dall’altro la cattiva gestione della nevicata e delle sue annesse conseguenze. Lo spargisale ripreso in foto sa di beffa.

LA CRONISTORIA – L’episodio risale a ieri sera. Intorno alle 22.30 un uomo di 54 anni ha un malore. Alle 22.40 viene richiesto l’intervento dell’ambulanza e dell’automedica del 118 di Altamura. Le strade cittadine, come avevamo denunciato già in mattinata, non sono state trattate e dopo le inizia nuovamente a nevicare, come noto da alcuni giorni grazie a precise previsioni. La diagnosi di infarto arriva alle 23, ma l’uomo arriva al Miulli dopo la mezzanotte. L’ambulanza è costretta a viaggiare ad una velocità massima di 30 chilometri perché le strade sono ghiacciate e nessuno ha pensato di provvedere a spargere sale. Sulla Altamura-Cassano ci sono fino a 50 centimetri di neve, i fiocchi continuano a cadere e le raffiche di vento sono particolarmente violente. Per fortuna dall’altro senso di marcia non sopraggiunge nessuno. In caso contrario sarebbe stato praticamente impossibile continuare il viaggio salvavita. Sulla Altamura-Santeramo i centimetri di neve sono “appena” 30. La provinciale è percorribile, ma con molti rischi. Bene la provinciale Cassano-Acquaviva, percorribile senza problemi, con l’evidente passaggio di ruspe e trattori. Perfetta la provinciale che collega l’ospedale Miulli a Santeramo.

LA BEFFA DELL’EMODINAMICA – Ci siamo occupati più volte dell’assurda lacuna – una delle tante – che caratterizza il nuovo, ma già vecchio ospedale della Murgia. Manca l’Emodinamica e quindi i pazienti infartuati intraprendono un viaggio miracoloso verso gli ospedali di Matera o Acquaviva. Bisogna sperare non ci siano problemi durante il viaggio, come in questo caso la neve. In alternativa non si può che pregare. Promesse, annunci, ma nessun intervento. La sala per l’Emodinamica resta un miraggio e in molti casi gli infartuati di Altamura, Gravina, Santeramo e della Murgia, vengono trattati oltre la cosiddetta golden hour, l’ora d’oro che permette interventi efficaci per trattare gli infarti.

ALTAMURA SENZA 118 PER TRE ORE – Uno degli effetti collaterali di questa approssimativa gestione del soccorso è la mancata copertura del territorio. Ambulanza e automedica di Altamura sono rimaste inservibili per tre ore. Contemporaneamente l’ambulanza di Gravina era a Santeramo e quella di Gravina già fuori per un altro soccorso. In sostanza un vasto territorio non avrebbe avuto assistenza adeguata in caso di emergenza.

LA DENUNCIA DI FRANCESCO PAPAPPICCO (FSI-USAE 118) – Nell’ignavia politico-amministrativa locale e regionale, continuiamo ad assolvere ai nostri doveri anche e soprattutto in queste condizioni. Una hybris che urta la sensibilità e la dignità di chi come noi è chiamato in emergenza a cercare di portare a termine ogni missione assegnata nel migliore dei modi. Sicché, mentre il dottor Ruscitti continua a supporre il contrario  e il Presidente Emiliano lancia proclami sull’istituenda AREU, continuiamo ad indicare la Luna e costoro a guardare il proverbiale dito. Una situazione che si ripropone in tutta la sua grottesca e paradossale crudezza quando il fronte d’azione è quello della trincea. Quello di equipaggi che non se ne stanno al calduccio degli uffici di potere, ma agiscono non solo contro le avversità climatiche, ma anche contro l’indifferenza dei cosiddetti manager della Sanità. L’Emodinamica del Perinei rimane un miraggio per la popolazione murgiana . Ogni ulteriore considerazione non può che sembrare ridondante e superflua. Tuttavia non molleremo e continueremo a testimoniare la nostra parresia per il bene dei pazienti e la sicurezza degli equipaggi del 118.

 

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Consorzio di bonifica perde il ricorso: reintegro del lavoratore e altre spese legali. Tutto a carico dei cittadini

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Nuova batosta sul Consorzio Terre d’Apulia, che poi significa sulle tasche di tutti noi. L’Ente pubblico economico, alla cui guida c’è il commissario straordinario Ninni Borzillo, ha infatti perso in Cassazione il ricorso presentato contro la sentenza della Corte d’Appello di Bari che disponeva il reintegro del lavoratore Filippo Fasano, nonché il pagamento delle spese processuali dei vari gradi di giudizio.

La vicenda, di cui abbiamo già scritto in precedenza, parte da lontano. Fasano, insieme al fratello Massimiliano, è tra quei cinque dipendenti del Consorzio Terre D’Apulia che hanno fatto ricorso al Giudice del lavoro per ottenere il riconoscimento del diritto all’assunzione dopo aver lavorato anche fino a 30 anni con contratti a termine.

Senza entrare nei dettagli tecnici, per i quali vi rimandiamo alla lettura della sentenza, in galleria a fondo pagina, le motivazioni addotte dal Consorzio sono tre: una ritenuta non fondata e due inammissibili. Praticamente, la Suprema Corte di Cassazione ha dato torto al consorzio su tutta la linea.

“La sentenza, di fine novembre, è stata notificata venerdì scorso  – ci ha detto l’avvocato Caterina Mallardi, che ha seguito tutta la vicenda – ed è immediatamente esecutiva. Se il commissario straordinario continuerà a non applicarla, mi rivolgerò al Tar per la nomina di un commissario ad acta, anche perché al lavoratore vanno ora riconosciuti tutti gli arretrati non percepiti per quei periodi in cui avrebbe dovuto lavorare, ma non gli è stato consentito”.

Parliamo di migliaia di euro, a cui bisogna aggiungere il pagamento delle spese del giudizio di legittimità che la Cassazione, si legge nella sentenza, “liquida in 3mila euro per compensi, oltre a 200 euro per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge”. Solo per un lavoratore, a cui, visto il presupposto, seguiranno verosimilmente anche altri. Ma forse il presidente Emiliano non lo sa.

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Giornalista contro Telenorba, sette anni in attesa di giudizio: la legge uccide lavoro e speranze

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Ricorso depositato da nullafacente a dicembre del 2011, prossima udienza per la decisione – se Dio vuole – a marzo 2019, affidata al quinto giudice nell’eterno balletto del rinvio. La storia, contenuta nel libro “Senza paracadute”, è la mia. Storia di un giornalista che non ha mai smesso di essere precario, in attesa di sapere da un “giudice a caso” quale sarà il suo futuro.

In questi più di 7 anni, quasi quanto il periodo lavorativo alle dipendenze di Telenorba, seppure formalmente sul libro paga di Media News, ho messo su una casa e al mondo due figli. Il più grande ha quasi 6 anni, quindi capace di capire quanto sia vergognoso attendere tutto questo tempo un giudizio che la Legge prevede in un periodo molto, ma molto più ragionevole.

Siamo tutti numeri di registro, come se non avessimo una vita, bollette e mutui da pagare o non dovessimo provvedere al sostentamento delle nostre famiglie. I più fortunati si appellano all’ex articolo 700, ma l’urgenza non viene concessa a tutti. Sì, perché il mio non è un caso isolato, anzi, siamo centinaia nelle stesse condizioni. L’andazzo è generale e non c’è verso a quanto pare di rispettare i codici del diritto. In molti sostengono che una nazione civilizzata si vede dall’efficacia e dalla velocità del suo sistema giudiziario. Beh, in Italia e a Bari siamo messi davvero molto male.

E allora, dopo un po’ di studi – non me ne vorranno gli avvocati, nemmeno il mio – provo a fare alcune considerazioni specifiche. Secondo quanto ho potuto apprendere, nel rito del lavoro ci dovrebbero essere due udienze: la comparizione delle parti e la discussione orale della causa. L’udienza di comparizione delle parti è la prima. In aula devono essere presenti i testimoni, già ascoltati in precedenza. E la discussione? Nel mio caso siamo alla sesta udienza e il giudice dovrebbe decidere l’esito del ricorso, ma già dalla seconda di queste udienze sarebbe dovuta arrivare la decisione. Volendo cavillare, due dei rinvii sono stati d’ufficio, altri tre senza apparente motivo e ora ne inizia un’altra. Abbiamo ascoltato testimoni, depositato video e documenti, tanti documenti.

Purtroppo, però, a quanto pare bisogna arrendersi a una gestione della Giustizia superficiale, indifferente ai bisogni e diritti dei cittadini. Il sistema ha fatto sue delle prassi scorrette, sotto il profilo morale, tecnico e formale.

Volendo parlare di moralità, le cause ormai vengono trattate come fascicoli, senza ricordare che si fa riferimento alla storia e al destino delle persone. Uomini e donne che hanno riposto le loro speranze all’interno delle carte di quel fascicolo. Il 90 per cento delle volte  non si sa neanche il nome del titolare di quel fascicolo; il giudice vede solo il numero di registro, cioè la data di iscrizione al ruolo della causa, e in base a quello concede i rinvii, a prescindere da quale possa essere l’oggetto del ricorso. Solo in caso di Legge Fornero o articoli 28 per comportamenti anti sindacali i tempi sono più stretti. Nel mio caso, lo ricordo a me stesso, stiamo parlando di un licenziamento e di un esposto consumati nel 2011. E se nel frattempo non fossi stato capace di reinventarmi un’occupazione in grado di farmi portare il pane a casa? Poco importa.

Sotto il profilo formale, invece, la cattiva prassi consolidata fa dimenticare che il processo del lavoro è un processo che ha tre caratteristiche: oralità, immediatezza e concentrazione. Ciò significa che tutti i rinvii della mia storia sarebbero dovuti essere vietati. Gli unici atti scritti sono introduttivi e le note conclusionali, poi, sono date dal giudice. Al contrario del processo civile, ci sono una serie di preclusioni e decadenze, che danno la possibilità di giudicare già alla prima udienza di discussione.

Capisco che si può essere sfortunati, un giudice può andare in maternità, essere trasferito o sostituito. Ci sta, ma la domanda che mi pongo è un’altra: perché il giudice che riceve la causa proveniente dal ruolo di un altro giudice non la decide, se è matura la decisione? Mi chiedo e lo chiedo anche ai tanti operatori della giustizia, perché le cause che non necessitano di istruttoria, quindi mature per una decisione, non vengano decise alla prima udienza. Il codice dice questo, ma non sia mai a dirlo in udienza, ormai è considerata da molti un’oscenità. E intanto la mia vita e quella di tanti lavoratori resta appesa per anni.

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Amanti, parenti e mafiosi assunti come stagionali: Procura e Corte dei Conti indagano sull’Arif

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Amanti, amici e parenti di politici e dirigenti pubblici, oltre a persone legate ai clan mafiosi del Gargano. Sono alcune delle persone assunte all’Arif come operai irrigui e forestali nel corso degli anni. Procura e Corte dei Conti hanno delegato due distinte indagini alla Giuardia di Finanza.

Nelle settimane scorse vi abbiamo raccontato delle continue visite degli uomini delle Fiamme Gialle nella sede dell’agenzia regionale.

L’acquisizione dei documenti e l’ascolto delle persone informate sui fatti avrebbero dato le prime conferme al nostro lavoro lungo ormai un anno e mezzo, iniziando a scoperchiare un presunto malaffare, che a detta di molti andrebbe ben oltre le sole ultime assunzioni di 39 operai irrigui e 304 forestali.

Assunzioni avvenute a quanto pare senza concorso pubblico, senza la necessaria pubblicità da parte delle due agenzie interinali che hanno provveduto al reclutamento e senza la verifica dei requisiti. La pacchia sembra essere finita, ma siamo certi che non mancheranno altri sviluppo importanti in merito alla contestatissima gestione targata Domenico Ragno.

 

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Arif, il vero scandalo sono le coperture al sistema: Ragno deve andare a casa

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Siamo sconcertati, sembra che il male assoluto interno all’Arif sia il “plotone” di amanti, parenti, amici, ma soprattutto presunti mafiosi assunti come interinali nell’agenzia regionale.

Il sistema della parentopoli nella più grossa agenzia pubblica pugliese è noto a tutti, quasi contemporaneamente alla scoperta dell’acqua calda. Tutti sanno, ma in pochi negli anni hanno chiesto e ottenuto una radicale pulizia delle molteplici torture di quel carrozzone.

Il vero scandalo all’Arif sono le coperture politiche e istituzionali di cui hanno sempre goduto gli approfittatori, economici o elettorali. Il direttore generale, Domenico Ragno, in queste ore le sta provando tutte nel tentativo di restare attaccato alla poltrona che lo condurrà a una tranquilla pensione.

A Domenico Ragno, autore di una commovente autodifesa (che pubblichiamo qui sotto e alla quale ci riserviamo di replicare), diciamo che deve andare a casa. Difende la razionalizzazione del personale, ma non sapeva che alcuni dirigenti dell’ente hanno continuato ad approfittare della loro posizione; racconta di inchieste interne sulla assunzione di presunti affiliati al clan del Gargano, ma a Foggia c’è gente onesta che viene trattata come bestie. C’è voluta la nostra inchiesta sull’uso improprio delle “auto blu” o sulla parentopoli del progetto maggiore, affinché prendesse la tardiva decisione di bloccare l’uso di quelle macchine e fare una ricognizione per sapere quanti e quali figli di lavorassero nell’agenzia che dirige. Il monitoraggio sulla Xylella a cui fa riferimento Ragno, è stato così eccezionale e meritorio da non essere riuscito a scongiurare l’approdo della fastidiosa alle porte di Bari.

Il vero scandalo interno all’Arif è la distrazione di chi dirige e il silenzio di chi sa e non parla per convenienze di vario tipo. In conclusione, al netto di dietrologie qualunquismo e demagogia, che in queste ore si sprecano ovunque, vogliamo dedicare l’ultimo pensiero agli operai irrigui e forestali che con questo bordello non hanno nulla a che fare. Non sappiamo quanti siano effettivamente, ma ci sono. Uomini e donne che lottano da sempre per avere un numero congruo di giornate lavorative annue in grado di assicurare a loro e alle proprie famiglie una vita dignitosa. Speriamo che quello tra Emiliano e l’assessore Di Gioia non sia stato il solito teatrino buffo della politica.

La replica di Ragno:

Le notizie diffuse da organi di stampa riguardo indagini su presunti scandali per assunzioni di amici, parenti, amanti e di altre irregolarità gettano gravi ombre sull’Arif e sul suo operato complessivo. Particolarmente preoccupanti sono le notizie relative alla presenza tra i lavoratori di personale vicino ad ambienti legati alla malavita, da me assolutamente sconosciuta e sulla quale mi attiverò immediatamente. Ciò detto, nel confermare la massima collaborazione con la magistratura per le indagini in corso non posso che rivendicare l’impegno e il lavoro svolto dal sottoscritto nell’opera di risanamento e ristrutturazione (ancora da terminare) dell’Ente, cosa riconosciuta pubblicamente a vari livelli, nonostante le resistenze interne. In poco più di 2 anni si è passati dai 700 interinali del 2015 (basti ricordare i 12 addetti per 1 pozzo) ai poco più di 300 attuali, razionalizzando il lavoro. Si sono realizzati regolamenti, sono stati fatti ruotare i lavoratori in conflitto di interesse, sono stati disciplinati gli incarichi legali e altro. Senza contare il duro lavoro quotidiano per le attività istituzionali vecchie e nuove (risparmiando negli ultimi 3 anni 13 milioni di euro rispetto al 2015) e l’ampliamento delle prospettive di intervento e di lavoro a tutela del territorio regionale. Infine, il monitoraggio della Xylella in Puglia, la più grande e capillare indagine a livello mondiale sul territorio, di cui si è arrivati alla terza edizione, che ha raccolto il plauso della Commissione Europea e conosciuta a livello internazionale. Il tutto realizzato da un’Agenzia ritenuta sino a poco tempo prima solo un carrozzone clientelare.

Nel garantire, come è stato fatto finora, la massima collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria, preme precisare alcune questioni.

In primo luogo in relazione al ricorso al lavoro somministrato, cui oggi attingono la quasi totalità delle Pubbliche amministrazioni in Italia e regolate dal Decreto Legislativo 165/2001 (disciplina del Pubblico Impiego) e dal Decreto legislativo 81/2015 (Jobs Act, oggi modificato) in sostanza gli enti pubblici non procedono ad assunzioni dirette ma utilizzano personale in somministrazione, secondo definite procedure, assunto tramite agenzie autorizzate e in missione presso l’Ente stesso. In pratica, in questo caso  non si applica la disciplina per l’accesso alle pubbliche amministrazioni, ma procedure diverse, delegando la selezione del personale alle agenzie affidatarie. Selezione che è avvenuta in base a criteri concordati, per gli operai, con apposito verbale sindacale del 10/05/2018 e per altro personale con quelli della L.R. 33/2017.

Le vicende legate alla cosiddetta “parentopoli” si ritiene siano quelle già oggetto di polemiche circa 1 anno fa e sono relative ad assunzioni realizzate, tramite agenzia, dal precedente Direttore generale, con scadenza 31/12/2018. E come già avvenuto nel corso del mio servizio in Arif, senza alcuna eccezione, non vi è stata alcuna proroga.

Riguardo le “consulenze”, in poco meno di 3 anni di permanenza presso l’Arif, sono state attivate solo 4 collaborazioni, tutte secondo le procedure di legge e ricadono sotto la fattispecie “servizi” nel Codice degli appalti.

Poi in merito alle assunzioni di 7 unità (su 10 richieste, in quanto per 3 profili non si sono ritenute valide le proposte prevenute all’Agenzia interinale) di personale in somministrazione per esigenze di ufficio, si precisa intanto che solo 5 sono attualmente in servizio e che l’espletamento della selezione è avvenuto su piattaforma telematica dell’Agenzia incaricata ed è stata attiva per diversi giorni. Sono pervenute 163 candidature, tra le quali sono state selezionate le unità lavorative in questione.

Ciò detto certamente c’è ancora molto lavoro da fare, l’Agenzia ha bisogno ancora di profonde modificazioni per farla diventare pienamente efficiente e moderna (in primo luogo personale tecnico, fondi adeguati e mezzi) e ben vengano tutte le iniziative tese a fare chiarezza sulla complessa vicenda dell’Arif.

Domenico Ragno
Direttore Generale Arif

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Scandalo Arif, Ragno precisa ma non convince: direttore generale resta in bilico

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Il direttore generale dell’Agenzia regionale per le attività irrigue e forestali sta provando a giocarsi tutte le carte per rimanere inchiodato alla poltrona. Le sue risposte alle nostre molteplici domande – adesso in parte anche della Procura e della Corte dei Conti – sono state affidate a uno scarno comunicato stampa, forse non troppo dettagliato per evitare che qualcuno continuasse a volere spiegazioni. Noi, però continuiamo il nostro lavoro certosino di analisi sull’attività del più grosso carrozzone pugliese.

INTERINALI SOTTO INCHIESTA Nel suo comunicato Ragno non fa alcun cenno al metodo di assunzione, ma scarica tutto sulle agenzie interinali. Nelle stagioni Aib e irrigue 2016, 2017 e 2018, è stato lui stesso a dettare le condizioni d’ingaggio alle agenzie interinali, precisamente chiedendo di assumere i più anziani, che annualmente fanno crescere il proprio curriculum, senza un criterio di rotazione, esperienza o qualsiasi altro requisito potesse dare la possibilità a tutti di avere un’opportunità lavorativa. A tal proposito le agenzie non hanno mai emanato un bando, ma seguito solo le sue indicazioni.

LO SBANDIERATO RISPARMIO DI 13 MILIONI – Al suo arrivo, la prima cosa fatta da Ragno è stata restituire gli autoveicoli a noleggio a lungo termine, circa 80, creando non poche difficoltà agli operai per l’uso del mezzo proprio. È da lì che ha iniziato il suo percorso di risparmio. Per quanto riguarda la sicurezza e l’acquisto di DPI (dispositivi di protezione individuale), non è stato fatto nulla anzi, ha risparmiato ancora altri soldini, a differenza del suo predecessore, che nel 2013 e 2014 aveva fornito a mille operai tutto il vestiario occorrente. Nulla è stato investito sugli impianti irrigui dove gli operai, tutta gente di buona volontà, si prodiga a sistemare linee, scavi, provvedendo anche alle riparazioni, tutto con il proprio saper fare. Anche lì un buon risparmio soprattutto se non si spende nulla. E ancora oggi si continua a non investire, a non utilizzare le somme disponibili sui capitoli competenti per ragioni che Ragno dovrà spiegare, invece di andare in giro a raccontare la storiella del reperimento di somme comunitarie. Somme che certamente serviranno. È una cantilena ripetuta da ormai tre anni in tutte le sale consiliari e commissioni regionali in cui viene invitato a dare spiegazioni. Strano che il presidente della IV Commissione, Donato Pentassuglia, non gli rinfacci la solita manfrina a giustificazione del mancato operato. Riepilogando, non spendendo tutte le somme messe a bilancio annualmente sui vari capitoli, Ragno ha creato un’economia che definisce risparmio, addirittura facendone un punto di vanto. Un buon amministratore deve chiudere i bilanci dell’ente in pareggio, assicurando condizioni di lavoro dignitose, il rispetto delle regole e servizi adeguati agli utenti, non creare un avanzo di cassa.

ASSUNZIONE INTERINALI IMPRESCINDIBILI – Anche qui lo zampino di Ragno è ben visibile. Come dichiara, le candidature pervenute all’agenzia interinale sono state 163, ma guarda caso i 7 assunti nel febbraio 2018 non sono altro che le unità che avevano terminato il rapporto lavorativo da somministrati il 31 dicembre dell’anno prima. Si tratta di 6 unità più una nuova proveniente da Turi che, secondo informazioni in nostro possesso, sembra essere vicina proprio alla famiglia del direttore generale, che a Turi possiede un attività agricolo-turistico-ricettiva sulla provinciale che collega il paese a Sammichele. Un altro caso di parentopoli o l’ennesima coincidenza all’interno dell’Arif? È un caso che su 163 rientrano a lavoro le stesse unità? Altro dilemma che Ragno dovrà spiegare, speriamo non davanti a un distratto Pentassuglia, ma alle autorità competenti, evitando di scaricare sulle agenzie interinali, secondo quanto sappiamo, limitatesi a dare seguito alle indicazioni del direttore generale.

CONSULENZE – Per capire meglio questo passaggio faremo un confronto fra Domenico Ragno e il suo predecessore, la cui anima non sembra essersi del tutto allontanata dai corridoi dell’Arif, Giuseppe Maria Taurino. Ex direttore Taurino, stipendio 90mila euro annui più 25 per cento per la produzione: consulenza a studio fiscale tributario per avviare l’agenzia; consulente tecnico e responsabile RSPP; nomina di due avvocati a supporto dell’agenzia a 12mila euro annui ciascuno; studio legale Sticchi-Damiani per consulenza direzione generale e uffici a 20mila euro annui; medico legale; addetto stampa sino a dicembre 2017 per 1.000 euro al mese. Direttore Ragno: stipendio di 120mila euro l’anno più 25 per cento per la produzione: consulenza a uno studio fiscale tributario sino a dicembre 2018; responsabile RSPP sino a dicembre 2018; proroga di due avvocati a supporto dell’agenzia sino a luglio 2019 per 12mila euro ciascuno all’anno; studio legale Balducci al solo supporto della direzione generale per 36mila euro l’anno; medico legale
addetto stampa somministrato da febbraio 2018 a febbraio 2019 con livello D1 del contratto nazionale a 2500 euro al mese, con attività di supporto della direzione generale; sei lavoratori somministrati di livello compreso tra D1 e C1 da febbraio 2018 a febbraio 2019, dei quali due dimissionari a supporto della direzione amministrativa.

Il direttore Domenico Ragno evidentemente non ha intenzione di rispondere alle nostre domande, ma restiamo a sua totale disposizione nel caso volesse spiegare alcune questioni rimaste aperte in merito alla gestione dell’ente.

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Telenorba, Montrone pigliatutto a rate: accordo con Chiarappa per le azioni. Radionorba in vendita?

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La famiglia Chiarappa trova l’accordo coi Montrone e cede le azioni delle aziende del Gruppo Norba. Matteo, Maria, Michelangelo e Gianfranco vendono a 3,73 euro ognuna delle azioni complessivamente detenute (1.385.940), per un valore nominale di poco superiore ai 700mila euro.

Nei giorni scorsi agli azionisti è stato fatto recapitare il diritto di prelazione previsto dall’articolo 10 dello Statuto della società. Per il momento, anche in considerazione dell’andamento non certo lusinghiero delle aziende legate al Gruppo dei Montrone, nessuno si è fatto ancora avanti.

Chiarappa e Montrone, dissotterrando momentaneamente l’ascia di guerra, avrebbero trovato un accordo economico per il pagamento delle azioni ad un prezzo superiore a quello del valore nominale, con pagamento in comode rate.

Formalizzato l’acquisto, l’azienda potrà essere considerata non più solo di fatto, della famiglia Montrone. Secondo alcune indiscrezioni, non è del tutto peregrina l’ipotesi che circola ormai da alcuni mesi: la possibilità della vendita di Radionorba, fiore all’occhiello del gruppo.

Tra i più interessati all’acquisto ci sarebbe Mediaset, con cui il Gruppo Norba ha già un intenso rapporto di collaborazione. Si tratta tuttavia di una ipotesi non confermata. In ogni caso, con la vendita delle azioni dei Chiarappa, dopo una guerra senza esclusione di carte bollate, si chiude una lunga pagina legata all’emittente di Conversano, il cui futuro è tutto da scrivere.

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Bitonto, condanna definitiva al presunto pedofilo. Carlo: “Sono innocente incastrato per la casa popolare”

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Bitonto, via Ugo La Malfa, è il primo pomeriggio del 6 gennaio 2015. Il 29enne Carlo, difeso dall’avvocato Nicola Lerario, non potrà mai dimenticare quel giorno. In queste ore ha saputo di dover scontare una condanna definitiva a 5 anni di reclusione, con l’accusa pesantissima di pedofilia, per aver palpeggiato una bambina di quattro anni.

“Non ho mai palpeggiato quella bambina – continua a ripetere il condannato – sono state fatte indagini lacunose. La mia vita è rovinata, avendo avuto l’unica colpa di aver aiutato la piccola a rialzarsi da una caduta”. La situazione è delicata, davanti a una condanna definitiva bisogna muoversi con la massima cautela, ma leggendo gli atti processuali abbiamo scelto di andare a fondo.

Carlo ci accoglie nel retrobottega del suo negozio, a Bitonto. È visibilmente provato, prima di questa storiaccia era incensurato e aveva una moglie, che ha perso anche per via della detenzione in carcere, un periodo che ha complicato ulteriormente la vita privata dei due. Ma cosa è successo? Carlo, allora 25enne, sta ristrutturando il locale dove avrebbe aperto la sua attività. Chiama sua moglie e le dice di prepararsi per andare insieme da Le Roi Merlin a comprare il materiale necessario. Durante le indagini il suo cellulare viene individuato dove dice di essere. Un punto a suo favore.

Da quel momento partono i 5 minuti infernali di quel 6 gennaio, giorno di festa e di mercato settimanale a Bitonto. In quel lasso di tempo Carlo raggiunge da via Traetta via Ugo La Malfa mentre sono in corso le pulizie, citofona alla moglie mentre la zia della bimba, che abita in un garage accanto, sta lavando le scale. Nell’androne del palazzo, visibile dalla strada perché sprovvisto di portone e in cui abita anche la nonna della piccola, si abbassa i pantaloni, abusa della bimba, si ricompone, aspetta la moglie e parte verso Le Roi Merlin dopo aver messo il passeggino di suo figlio in auto.

La versione del ragazzo è diversa. “La bambina stava scendendo i tre scalini con addosso gli stivali della zia – racconta e si legge nelle carte – mentre ero lì è caduta e sono andato immediatamente da lei per aiutarla a rialzarsi. Stavo sistemando il passeggino in macchina, una Citroen C3 Picasso, ricordo che l’ammortizzatore del pistone era rotto e il portellone dell’auto mi è caduto in testa, provocando le risate della zia della piccola”. Tutto sembra procedere normalmente fino a quando la Polizia piomba a casa di Aldo, il papà di Carlo, che abita al’ultimo piano del palazzo e che con la famiglia della bambina, i Sicolo, ha già avuto altri screzi.

Carlo e la sua famiglia vivono con il padre e la madre di lui da circa tre mesi. Ha uno sfratto e avrebbe voluto sistemarsi in quella casa popolare visto che i genitori stavano trovando un’altra sistemazione. La descrizione dell’orco fatta dalla piccola è imprecisa. “Sembrava sotto dettatura – continua Carlo -. Diceva che a farle del male era un uomo che abita nel bar, con un cane bianco e che guidava il furgone. Nessuno ha dato importanza al fatto che il cane di mio padre era morto due anni prima, che ero arrivato e ripartito con la mia auto, non con il furgone e che la bimba non avrebbe mai potuto sapere che in quel periodo lavoravo nel bar di famiglia senza che nessuno glielo avesse suggerito. Non l’avevo mai vista prima”.

Quando circa un mese dopo arriva la notifica con l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nonostante alcune precedenti rassicurazioni da parte degli investigatori, la famiglia di Carlo piomba nell’incubo. Papà Aldo si fionda al commissariato e gli viene suggerito il nome di un avvocato al quale rivolgersi. L’uomo si reca nello studio e in sala d’attesa vede alcuni familiari della bambina oggetto delle presunte attenzioni del figlio. L’avvocato stesso ammette di difenderli per altre questioni, ma dice ad Aldo di non preoccuparsi perché c’è un video.

Peccato, però, che quel video sia parziale: solo 1 ora 4 minuti e 53 secondi  a disposizione, ma totalmente insignificanti. Le immagini della telecamera pubblica, montata in cima a un palo, partono dal momento successivo al fatto. E il resto? Nel corso del processo, quando a chi indagava è stato chiesto se avesse visto il filmato, la risposta ha scandalizzato tutti: “Assolutamente no, non ce n’era motivo”. Il video sarebbe potuto essere determinante, perché avrebbe potuto fornire elementi essenziali alla determinazione dell’innocenza o della colpevolezza di Carlo.

Non siamo giuristi, ma la prassi sembra se non altro discutibile. Il responsabile delle indagini non è più a Bitonto, così come in quel garage abusivo in via Ugo La Malfa non c’è più neppure la famiglia della piccola, emigrata in Lombardia. Famiglia che a quanto pare avrebbe avuto problemi con un altro minore, seguito dai servizi sociali. Episodio avvenuto prima della presunta violenza.

E torniamo a quel giorno. Nonostante le accuse gravissime, la bimba viene sottoposta a visita specialistica solo dieci ore dopo l’accaduto, senza che emergesse alcun indizio di un eventuale abuso. Perché non è stato rispettato il protocollo previsto in queste situazioni? Tant’è che il reato di cui è stato accusato Carlo non è la violenza sessuale, neppure tentata, come inizialmente ipotizzato, ma di aver palpeggiato la piccola. “Del resto come avrei potuto fare ad abusare di lei in quelle condizioni, con almeno una ventina di suoi familiari a pochi metri, in 5 minuti e per di più con la zia che lavava le scale, con il palazzo accessibile a chiunque perché senza portone?” Carlo non riesce a darsi pace.

Alla luce del quadro accusatorio debolissimo, cosa sarebbe successo se nell’interrogatorio di garanzia il primo avvocato gli avesse consigliato di avvalersi della facoltà di non rispondere? “Non saremmo arrivati a questo punto – dice amareggiato – in buona fede ho detto di essere stato lì, perché ci ero stato effettivamente, e avevo aiutato quella bambina a rialzarsi dopo la caduta. Come avrei mai potuto immaginare di ritrovarmi la vita distrutta in questo modo?”.

Tra le altre cose Carlo è affetto da sclerosi multipla. È anche sotto cura antidepressiva, aspetta di essere incarcerato, ma spera in nuove prove e quindi nella revisione del processo. Il sospetto è che possa essersi trattato di un’accusa costruita ad arte per evitare che entrasse in possesso della casa popolare del padre, che consegnò comunque le chiavi all’Arca.

Quell’alloggio successivamente è stato occupato abusivamente, ma adesso è vuoto perché gli autori del reato sono in carcere per altre ragioni. Siamo stati sul posto per sentire anche la versione della famiglia Sicolo, che con la Legge ha diversi problemi. Nessuno di loro, ad eccezione della nonna della bambina, ma con la condizione che non si vedesse in volto, ha voluto parlare davanti alla telecamera.

“Giustizia è stata fatta”, ha detto la nonna, seppure non siamo del tutto convinti, anche perché sui particolari della vicenda ci sono diversi punti oscuri e divergenze nei racconti fatti dagli stessi familiari, persino sul fatto che la bambina stesse scendendo o salendo quei tre scalini, sulla presenza del cane bianco, tanto per citarne alcuni. Alcune delle persone raggiunte non ricordavano neppure l’episodio. A dire loro della condanna di Carlo siamo stati noi. Nessuno li aveva avvisati, né tanto meno si sono costituti parte civile nel processo.

Nessun video, la zia che puliva le scale, un rapporto controverso tra famiglie con vecchi rancori e denunce, lacune nelle indagini, la tardiva visita alla bambina, testimonianze controverse. In carcere sta finendo davvero un pedofilo? Restano tanti dubbi e per una condanna così infamante non dovrebbe essercene neppure uno.

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Caos Arif, dimissioni con ‘regalo’ del commissario Milillo. Csa: “Sistemati gli amici degli amici. Esposto in Procura”

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Invoca trasparenza, ma poi firma un progetto di 36 mesi per il controllo delle acque sotterranee della Regione Puglia che sa tanto di rinnovo del Progetto Maggiore. Bufera sull’ex commissario straordinario dell’Arif, Oronzo Milillo. Del Progetto Maggiore, di cui abbiamo scritto in passato – lo ricordiamo – facevano parte figli e amici di politici e dirigenti piazzati all’Arif senza selezioni pubbliche e ad un certo punto con il rischio concreto che potessero ritrovarsi a godere di un contratto a tempo indeterminato nell’agenzia pubblica. Avevamo recentemente scritto delle forti pressioni sull’ex direttore generale, Domenico Ragno, affinché rinnovasse i contratti ai raccomandati. Parentele che lo stesso Ragno non aveva mai smentito, limitandosi a dire che tutto era successo prima del suo arrivo, ma non esimendosi dal rinnovo di almeno tre contratti con la sua firma. Il Progetto Maggiore ha fin dall’inizio rappresentato l’emblema di cosa sia stata ed evidentemente sia ancora l’Arif. 

Ieri, una volta appresa la notizia della delibera sul progetto per il controllo delle acque sotterranee, il primo ad alzare la voce sull’ennesimo presunto abuso è stato il sindacato Csa Ral, che ha stigmatizzato il comportamento dell’ex commissario straordinario dell’Arif Milillo in un comunicato stampa senza fronzoli. Il sospetto non dichiarato è quello che a controllare le acque siano gli stessi del Progetto Maggiore. 

“Il commissario dimissionario Arif Oronzo Milillo – tuona il Csa – predica bene e razzola male. L’ultimo giorno del suo mandato, senza nessuna consultazione con le organizzazioni sindacali di parte pubblica, accontenta gli amici degli amici. È stata pubblicata una delibera di assunzione personale somministrato per 14 unità. Delibera numero 311 del 29/08/2019. Di queste unità, sette sono assunte con contratto pubblico, in mancanza di bando a valenza pubblica e relativa comunicazione”. 

Ma c’è di più. “Si precisa che l’Arif da un anno e mezzo è senza RSU, che è l’organo sindacale preposto alla ratifica di tutte le questioni riguardante il personale pubblico. Come da nota dell’Aran protocollo ARIF AOO-ARIF 41671 del 25/07/2019. Il Csa ral, oltre a denunciare mezzo stampa come già successo per questioni analoghe della precedente amministrazione, invierà esposto denuncia alle Procure della Repubblica di Bari, Brindisi, Lecce, Foggia e Taranto, Ministero della Funzione Pubblica, Anac e alla Procura Generale della Corte dei Conti Puglia”. 

Uno degli elementi che più di tutti fa discutere è la circostanza di aver assegnato il ruolo di Responsabile unico del procedimento (rup) sul controllo delle acque sotterranee, ad Antonio Giannini, il dipendente che più di altri ha sistemato più familiari in Arif attraverso il Progetto Maggiore. Intanto sull’Agenzia Regionale delle Attività Irrigue e Forestali continuano ad essere accesi i riflettori della Guardia di Finanza.

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Adelfia, il “gioco di San Trifone”: luminarie accese su numeri e retroscena della festa

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Il crollo delle luminarie di San Trifone, ad Adelfia, ha scatenato ogni tipo di commento e frustrazione, dividendo la cittadinanza. Integralisti e riformatori a confronto, purtroppo non sempre civile. È sempre stato più facile puntare il dito contro qualcuno, in questo caso il giornalista, invece di mettersi attorno a un tavolo per cercare di risolvere i tanti problemi della festa.

Da un lato quelli che: “è stato un evento eccezionale che ha causato danni ovunque”; dall’altro i colpevolisti: “il vento non c’entra, le luminarie non sono state montate a regola d’arte”. Il crollo delle luminarie, in realtà, è solo la punta dell’iceberg di una festa patronale organizzata male e conclusa peggio. Non parliamo ovviamente del suo immutato fascino, della devozione a San Trifone, dell’odore di agnello, delle luci e delle giostre, dei fuochi e dei pellegrini. A scanso di equivoci, il nostro approfondimento riguarda altro, ovvero tutto ciò che si muove nelle maglie strette di beghe politiche (sarebbe previsto ad horas un rimpasto della Giunta), interessi personali e storture gestionali di ogni tipo.

Nessuno è contro la festa, ma per migliorarla non si può continuare a soprassedere su tutto. È il tempo di fare qualche numero, pur scusandoci delle imprecisioni, ma non siamo per ora riusciti a trovare resoconti ufficiali. Chiariamo una cosa, il problema principale di quanto accade – non certo del crollo delle luminarie – è soprattutto imputabile alla totale estraneità del Comune nell’organizzazione della festa, attribuita completamente al Comitato feste, con tutti i limiti di trasparenza, essendo invece tutte le incombenze pagate dai contribuenti adelfiesi. L’opera dei volontari del Comitato è lodevole, ma deve essere di supporto al lavoro della pubblica amministrazione, non sostituirsi ad essa.

LE LUMINARIE  – Da più di cento anni le luminarie sono opera dell’azienda Faniuolo. Un lavoro del valore di 70/80mila euro, che al Comitato feste costerebbe 25mila euro. Una divergenza di valore non sfuggita ad alcuni leader nazionali e mondiali di luminarie, interpellati per l’occasione che, tuttavia, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni. Ve le risparmiamo anche quelle indirette per rispetto dei professionisti. Devozione, tradizione, immagine e cuore per Faniuolo valgono evidentemente uno sconto da diverse decine di migliaia di euro. Le luminarie, qualunque sia la cifra spesa dal Comitato, hanno un regolare collaudo (autocertificazione di un tecnico dell’azienda) e una regolare assicurazione per i danni a terzi. Chi si è ritrovato le luminarie sul balcone sarà risarcito, come tra l’altro riferito dall’imprenditore ai Carabinieri. I danni alle luminarie, invece, saranno tutti a carico di Faniuolo. A quanto pare l’effettivo pagamento delle luminarie non avrebbe intaccato il montaggio a regola d’arte. Il vento, in ogni caso, ci ha messo il suo, seppure resta la perplessità di un’allerta conosciuta da giorni e, se nessuno ci smentisce, il consiglio dato dal comandante della Polizia Locale al presidente del Comitato, di suggerire all’azienda un veloce smontaggio per evitare il peggio, se non altro della parte terminale, quella più maestosa.

L’OCCUPAZIONE DEL SUOLO PUBBLICO O QUASI – È forse uno degli esempi più calzanti di come l’Amministrazione comunale abdichi al suo ruolo nei giorni della festa in onore di San Trifone, limitandosi a fare da bancomat. Nonostante la nostra denuncia dell’anno scorso, anche nell’ultima edizione l’occupazione di suolo pubblico è stata incassata inizialmente sotto forma di obolo dal Comitato. Non ci sono dubbi, al contrario invece dei tanti dettagli. Solo venerdì, dopo un summit a Palazzo di Città, quando la fiera era ormai quasi finita, si è frettolosamente trasformato l’obolo dei 500 commercianti ufficiali, in altrettanti bollettini per il pagamento dell’occupazione del suolo pubblico. Operazione fatta col malloppo di contanti all’Ufficio postale. Soldi che, a meno di clamorosi ripensamenti e rigurgiti di trasparenza, saranno girati interamente dal Comune al Comitato, come del resto promesso, perché altrimenti come fai?

GLI ABUSIVI – A molti non è sfuggito il clima di serenità di molti venditori abusivi di colore e non che aleggia alla festa di San Trifone. Non c’erano ambulanti pronti a scappare col bustone o il lenzuolo alla vista della Polizia Locale o della Guardia di Finanza, come succede in occasione di altre fiere o mercati settimanali nel resto del Barese. Un vigile confessa che: “I controlli alla festa di San Trifone si fanno con le bende agli occhi”. Nel senso che non possono essere di fatto effettuati in maniera efficace, perché la pianta dei posteggi è detenuta e allestita dal Comitato e non dagli uffici comunali preposti. La ragione di quella tranquillità, ci dice un membro del Comitato che ha chiesto di rimanere anonimo, sta nell’obolo pagato anche da chi alla festa per ragioni di legalità non potrebbe neppure starci. In nessun’altra parte della terra un venditore di scarpe contraffatte potrebbe ricevere la formale autorizzazione da un dipendente e quindi pubblico ufficiale di un Comune. Alla maniera adelfiese si aggira comodamente l’ostacolo. In mezzo alle strade affollate della festa è saltato subito agli occhi che i venditori, tra l’altro come riportato dal numero progressivo dei parcheggi, siano stati molti più dei 497 pagatori dell’occupazione di suolo pubblico.

IL REGALINO OBBLIGATORIO – A pagare il regalino, qualcosa oltre l’obolo travestito da occupazione di suolo pubblico, non sarebbero solo gli abusivi, ma anche i venditori regolari. Un ambulante di panini, per la prima volta ad Adelfia, solo per fare un esempio, è stato invitato a donare 20 euro nel nome di San Trifone. Lo ha detto davanti ad alcuni testimoni.  Per qualcun altro il regalino è stato di 50 euro, ma i venditori più grandi e storici, quelli dei posti e guadagni migliori, lascerebbero cifre ben più importanti. L’amico del comitato è categorico: “Senza quei soldi la festa non potrebbe essere così bella”.

IN-SICUREZZA E SVIABILITA’ – Su invito del Prefetto a utilizzare il maggior numero di associazioni e agenzie private per assicurare la sicurezza dei visitatori, il Comune di Adelfia quest’anno si è avvalso della collaborazione di FI.FA. Security e dell’agenzia La Fonte per una cifra complessiva di 5mila euro. Sicuramente una coincidenza il fatto che un dipendente della seconda agenzia sia un parente stretto di un vigile adelfiese impegnato attivamente durante la festa, non solo nel presidio delle strade. Sì, perché la gestione della festa – al netto dei fuochi e delle luminarie – è completamente a carico carico dei contribuenti adelfiesi, qualcuno dei quali ha pure fatto l’ulteriore donazione per rendere la festa patronale “una cosa mondiale”. A questi soldi vanno aggiunti i 10mila euro spesi per il progetto San Trifone, ovvero la possibilità di poter disporre di vigili extra. Al grande spiegamento di forze fa da contraltare la totale insicurezza che quest’anno si è toccata con mano ai varchi e in prossimità delle vie di fuga, oppure durante l’esecuzione dello spettacolo pirotecnico serale della domenica.  Rissa sfiorata sulla via di Valenzano mentre alcuni addetti alla sicurezza scortavano la processione di San Trifone. Come se non bastasse ci sono anche i 16mila euro necessari per i new jersey, in alcuni casi inutili perché a lungo non presidiati e quindi chiunque è entrato e uscito dalla zona off-limits. Tutto pagato dall’Amministrazione comunale.

RIFIUTI “PERICOLOSI” – Quest’anno i conteggi non sono stati ancora effettuati. Un altro motivo dell’imprecisione dei nostri numeri. L’anno scorso, però, nella sola giornata clou del 10 novembre, i 100mila pellegrini, gli ambulanti, gli abusivi, i cittadini adelfiesi e chiunque sia passato da Adelfia, ha prodotto circa 400 quintali di rifiuti. Sì, 40 tonnellate di carta, cartone, plastica, vetro raccolti in maniera indifferenziata e quindi pagati a peso d’oro e quest’anno potrebbero essere persino di più. Rifiuti lasciati ai bordi delle strade durante il passeggio come in una grande discarica a cielo aperto. Rifiuti indifferenziati la cui gestione è pagata non da tutti i visitatori, ma dai soli contribuenti adelfiesi, che per questa ragione non riescono a ottenere una riduzione della Tari. Il solito 68% della raccolta differenziata, a novembre può scendere anche al di sotto del 40%. In quel caso la distinzione campanilistica tra Canneto e Montrone viene cancellata con un colpo di spugna. Il paradosso è che da tre anni il Comune ottiene un contributo superiore ai 5mila euro nel nome dell’ecofesta, ovvero addetti con i bidoni che invogliano a differenziare, evidentemente senza alcun risultato di rilievo. Secondo quanto abbiamo saputo, invece, le pulizie straordinarie durante la festa non varrebbero maggiorazioni al costo della normale raccolta. Non abbiamo modo di dubitare di quanto riferito, seppure ringraziare per lo sforzo immane fatto dagli operatori appare fuori luogo potendo essere gestita diversamente quella mole di rifiuti, facendoli magari in parte pagare a chi li produce.

I FUOCHI D’ARTIFICIO – Anche per i maestri dei fuochi d’artificio, esattamente come le luminarie, San Trifone è una eccezionale vetrina, quindi investono del proprio pur di essere presenti. Calcolate che in qualsiasi festa patronale, proprio a causa dei costi, vengono sparate 2, al massimo 3 cosiddette bombe da tiro. Ognuna di queste ha un valore di circa 500/600 euro, con due addetti al lavoro un paio di giorni per il confezionamento. La domenica pomeriggio ad Adelfia di bombe da tiro ne vengono fatte esplodere 5. Complessivamente, sempre con l’imprecisione che ci perdonerete, le aziende sono 5 e pare che ognuna sia stata pagata dal Comitato circa 9mila euro iva inclusa, a fronte di un valore reale che si aggirerebbe intorno ai 14/16mila euro. Ognuna delle aziende, giunta con almeno 6 o 7 operai, che dormono in camion e furgoni durante il tempo della festa, svuotano i magazzini per farsi pubblicità. In sostanza, è un investimento reciproco. È questo ciò che fa la fortuna della festa di San Trifone. Anche in questo caso i numeri sono quelli strappati ad alcuni amici del Comitato e alcuni altri profondi conoscitori della materia, a cui vorremmo fosse data smentita o conferma. Non sono tante le persone che conoscono queste cifre.

IL REGOLAMENTO – È inutile negarlo, ma uno dei motivi per cui l’amministrazione comunale è andata in crisi è proprio la festa di San Trifone e l’elaborazione del regolamento che consentirebbe di riportare tutto nei limiti della trasparenza, dando a Cesare ciò che è di Cesare. Ricordiamo, infatti, che le rendicontazioni della festa sono una chimera. Lo sono sempre state, almeno a sentire alcuni dipendenti comunali, andati in pensione mentre ancora erano impegnati a cercarle le rendicontazioni. La frattura tra il sindaco Giuseppe Cosola e il suo ancora non si sa per quanto tempo vice, Costantino Pirolo, è insanabile. Quest’ultimo avrebbe tentato, con due consulenti di sua fiducia, di mettere in piedi il benedetto regolamento, ma l’altra sponda del ramo di Adelfia avrebbe stoppato l’iniziativa, un po’ per la cifra ballerina della consulenza, un po’ per paura che non fosse abbastanza equo. A quanto pare nei prossimi giorni potrebbe già essere convocato un vertice aperto a tutti i protagonisti della festa, nel tentativo di non arrivare impreparati al prossimo San Trifone e tentare di regolamentare i giorni di delirio. Giorni in cui – come abbiamo detto – oltre ai fedeli arrivano anche tanti barbari.

DI RIFFA E DI SGAMBETTO Tutto nasce due anni fa, quando viene messo in piedi un gruppo di agricoltori con l’intento di vincere la riffa e portare in processione San Trifone. Mario De Palo è del gruppo. Il gruppo vince offrendo 16mila euro, ma resta uno strascico che diventa sgambetto l’anno dopo. Nel 2018, il Comitato annuncia a pochi intimi di essersi accordato con la famiglia Fracchiolla per 15mila euro. La riffa in quel caso sarebbe diventata dunque farsa. Al gruppo di agricoltori, che probabilmente sarebbe riuscito ancora a vincerla, la cosa non piace. Del resto l’anno prima aveva contribuito in maniera determinante alla buona riuscita della festa. L’asta è un’asta, mica un affidamento. Così il gruppo decide di mandare all’aria l’accordo e si presenta alla riffa particolarmente agguerrito, riuscendo ad accaparrarsi il santo in processione nel delirio della gente per la cospicua cifra di 24mila euro. Quest’anno in tanti hanno notato l’assenza alla riffa dei big, famiglie che hanno sempre contribuito. Mancava anche Dilella, dopo che l’Amministrazione si è messa in mezzo a una questione che lo vedeva contrapposto al costruttore Tisto, ordinando la demolizione dell’autolavaggio dell’imprenditore. Lo stesso gruppo di agricoltori, dunque, si aggiudica San Trifone per il terzo anno a 12mila euro.

DEVOZIONE E RISPETTO – Un capitolo non indifferente delle entrate, che di conseguenza permettono le grandi uscite per la festa del santo patrono, è rappresentato dalle donazioni degli emigrati, degli adelfiesi e di tanti pellegrini. A loro si deve soprattutto una maggiore trasparenza, perché i soldi donati sono comunque soldi sudati e quindi tutti i donatori meritano di conoscere pubblicamente e fino all’ultimo spicciolo le entrate e le uscite, le spese del Comitato e quelle dell’Amministrazione pubblica. Un fatto imprescindibile, non solo perché stabilito da un regolamento puntualmente disatteso.

 

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Trasporti Puglia, corse bus duplicate e senza gara: spreco da 115 milioni in 6 anni. Garante scrive a Corte dei Conti

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“La Regione Puglia sui trasporti spreca una enorme somma di denaro. Ha operato un netto distinguo in fatto di rimborsi chilometrici tra servizi svolti dalle società ferroviarie locali di trasporto che sostituiscono o integrano il treno con i bus e gli autobus di linea gestiti dal Cotrap e che finiscono per duplicare le stesse tratte di viaggio”. L’esempio è quello della tratta Lecce -Maglie-Otranto.

Per lo stesso tragitto, la Regione Puglia spende la somma di circa 3,20 euro per chilometro, mentre eroga al consorzio di autobus di linea Cotrap 1,69 euro a chilometro. “Moltiplicatelo per tutte le tratte automobilistiche che le Società Ferroviarie in Puglia gestiscono e che esercitano da anni nell’attesa del completamento della traccia ferroviaria oppure integrano o sostituiscono il nulla in quanto non esiste neanche il sedime ed avrete un maggior costo per i cittadini pugliesi di oltre 21 milioni di euro l’anno”.

Il messaggio pubblicato il 15 gennaio scorso dall’avvocato Davide Bellomo, candidato alle regionali con la Lega, non ammette repliche, seppure quella dell’assessore pugliese ai Trasporti, Gianni Giannini, non avrebbe dovuto tardare. Al netto del retrogusto politico, fosse vero il messaggio dello spot, sarebbe difficile spiegare ai pendolari pugliesi perché i trasporti regionali non sono efficienti. Pensate alle recenti proteste degli studenti e dei loro genitori o a quanti non possono andare in maniera diretta per esempio all’ospedale della Murgia, perché spesso non sono assicurati i servizi minimi.

“Spesso si lamenta la mancanza di risorse, ma forse dovrebbero solo non essere sprecate”. In assenza di una replica ci siamo presi qualche giorno per fare una ricerca e ciò che raccontano numeri e documenti ufficiali è impressionante.

GLI AIUTI DI STATO E IL RISCHIO PER LA REGIONE PUGLIA – Lo stanziamento di 70 milioni di euro da parte del ministero dei Trasporti a favore di Ferrovie del Sud Est e la cessione della sua partecipazione in Fse a favore delle Ferrovie dello Stato Italiane costituiscono aiuti di Stato non notificati alla Commissione europea. La Corte UE di Giustizia non ha avuto dubbi e ora si attende solo di capire quale dei Pantalone dovrà mettere mano al portafogli. La domanda che si pongono in tanti è un’altra: non è forse aiuto di Stato anche la disparità di trattamento in fatto di rimborsi chilometrici? (Come potete osservare nella tabella). A tal proposito il Cotrap ha chiesto l’intervento del Consiglio di Stato per determinare se la media di 1,80 euro per chilometro pagato dalla Regione dopo una regolare gara non sia un trattamento dispari rispetto ciò che viene erogato senza un normale appalto alle società locali di trasporto ferroviario e sostitutivi delle tratte ferroviarie locali.

L’AMMONTARE DELLO SPRECO CON LA CALCOLATRICE – L’avvocato Bellomo parlava di 21 milioni di euro l’anno. Ovvero il calcolo della differenza tra i 3,20 euro e l’1,80 euro. Una cifra che va calcolata dalla deliberazione regionale numero 1221 del primo luglio  2013, rivista al netto dell’inflazione (più 2,6 per cento), con successiva ridistribuzione dei fondi attraverso la deliberazione numero 693 del 9 aprile 2019. Facendo due calcoli come la diligente mamma di famiglia alle prese con le bollette, siamo intorno ai 115 milioni di euro: 21 milioni di euro l’anno da luglio 2013.

I CASI SPECIFICI – Non solo c’è disparità tra il costo chilometrico rimborsato al consorzio Cotrap stabilito da una gara e quello senza appalto dato agli altri, ma esiste anche all’interno di chi gestisce le cosiddette linee su gomma sostitutive o integrative. Le Ferrovie Sud Est nel 2019 hanno percorso su gomma 12,036.027 chilometri al prezzo di 3,26 euro ogni singolo chilometro. La Ferrotramviaria (compresa le linee San Paolo e Aeroporto) 853.193 chilometri a 2,29 euro a chilometro. Le Ferrovie Appulo Lucane (FAL) 1.599.345 chilometri a 3,67 euro al chilometro. Ferrovie del Gargano (San Severo-Peschici) 274.718 chilometri a 2,73 euro a chilometro.

IL BIZZARRO CASO TRENITALIA – Un caso a parte è quello rappresentato da Trenitalia. I suoi autobus hanno percorso 1.731.801 chilometri nel 2019, ma non è dato sapere quanto la Regione Puglia paghi il singolo chilometro. Il Cotrap, che ha percorso 23.385.216 milioni di chilometri in ambito regionale e 31.800.000 sulle strade provinciali, pagati a singoli chilometri 1,88 e 1,69 euro, ha chiesto di accedere agli atti. In assenza di trasparenza ha portato ancora una volta la Regione Puglia in Tribunale. Regione che, in modo molto bizzarro, in fase di giudizio ha fatto sapere di non poter stabilire quanto paga il trasporto su autobus a Trenitalia nell’ambito del coacervo contrattuale. In altre parole, i pugliesi non possono sapere il dettaglio dei bonifici a Trenitalia, senza quindi poterne controllare l’economia di gestione.

IL CASO LECCE-MAGLIE-OTRANTO E I BUS SOSTITUIVI E INTEGRATIVI – Uno dei casi più emblematici dello spreco nel settore dei trasporti è quello che accade sulla linea Lecce-Maglie-Otranto, dove non esiste la linea ferroviaria, ma ci sono due aziende automobilistiche che percorrono la stessa tratta, pagate con cifre diverse come già detto. Assurdità nell’assurdità se si considera cosa significhi per legge linea integrativa o sostitutiva. SOSTITUTIVA quando per manutenzione necessaria a causa di molteplici motivi, la traccia ferroviaria è impraticabile e quindi viene sostituita con la gomma agli stessi orari e alla stessa frequenza. Se il treno partiva dalle 7 ogni 50 minuti, solo per fare un esempio, anche il pullman dovrà partite alle 7 ogni 50 minuti. INTEGRATIVA quanto non ci sono sufficienti carrozze e quindi prima di dotarsi del numero sufficiente per soddisfare la domanda si usano autobus che partano alla stessa ora e con la stessa frequenza. La domanda è di 100 pendolari, ci sono carrozze per 70, fino alla dotazione di nuovi vagoni 30 utenti saranno serviti dai bus, quindi integrativi. In entrambi i casi, però, ci deve essere una linea ferroviaria.

LO SPRECO LIMITA LO SVILUPPO – Volendo minimizzare, con i 115 milioni di euro o giù di lì che si sarebbero potuti risparmiare, ognuno dei pendolari avrebbe potuto avere una corsa a piacimento. Più seriamente, quei soldi sarebbero potuti essere spesi per nuovi mezzi, obliteratrici intelligenti, la possibilità di tenere aperte certe stazioni, sistemi di sicurezza, localizzazione, macchinette automatizzati per la vendita dei titoli di viaggio, tecnologie di controllo e decine di altri interventi possibili. In Puglia, invece, quei soldi, investiti con disparità di trattamento, vengono usati per finanziare duplicati di linee sostitutive o integrative al treno anche dove manca la ferrovia.

IL PARERE DELL’AUTORITA’ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO – L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel corso del 2018 e 2109 ha ricevuto alcune segnalazioni in merito alle possibili distorsioni della concorrenza riconducibili all’affidamento diretto da parte delle Regioni dei servizi automobilistici, cosiddetti sostitutivi e integrativi dei servizi ferroviari. A seguito delle segnalazioni l’Autorità Garante ha avuto un’ampia interlocuzione con Regioni e Province per avere un quadro complessivo. Leggendo il parere, inviato anche alla Corte dei Conti, si legge: “Quanto all’integrazione con i servizi di TPL su gomma, vanno annoverate le novità previste più di recente dal decreto legge n.50/2017, il cui art. 48 impone alle Regioni di definire bacini di mobilità sulla base di analisi della domanda, avvalendosi di matrici di origine/destinazione per l’individuazione della rete intermodale dei servizi di trasporto pubblico garantendo l’eliminazione di ogni possibile sovrapposizione tra servizi esistenti”. E quindi “l’Autorità ritiene che le circostanze emerse presentino più di un profilo di potenziale criticità dal punto di cista concorrenziale con riferimento sia alle modalità di affidamento dei servizi automobilistici sostitutivi/integrativi, sia alla loro gestione e alle modalità del loro finanziamento”.

IL CONTROSENSO GREEN – Fin qui i chilometri percorsi, ma quanti passeggeri si muovono su gomma e quanti usano il treno? Nel 2018 si sono spostati in autobus quasi 88 milioni di passeggeri (82 per cento), mentre quelli dei treni sono stati appena il 18 per cento (19 milioni). Gli investimenti ingenti fatti dalla Regione per la realizzazione e la manutenzione delle infrastrutture ferroviarie, evidentemente non elevano il grado di soddisfazione dei pendolari, che preferiscono gli autobus.

 

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Cronavirus Puglia, tute cinesi non proteggono dal rischio biologico: meglio quelle che niente. Scoppia la polemica

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In guerra ogni buco è trincea e per analogia, essendo quella al coronavirus una guerra, ogni tuta è buona per proteggersi dal rischio biologico, anche se il dispositivo individuale è realizzato solo per contenere il rischio meccanico. Succede in Puglia e in una buona parte del mondo. Le tute in questione sono le 120mila sbarcate in diretta Facebook l’altro giorno all’aeroporto di Bari.

D’un tratto riprende fuoco la polemica sui dispositivi non a norma contro cui si era scagliato anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, che per questo aveva scelto di fare da sé. In una nota inviata dalla Protezione Civile pugliese al Dipartimento della Salute e alle Aziende del Sistema Sanitario Regionale, si sancisce che se proprio nel mondo non si riescono a trovare tute opportune al contenimento del rischio biologico, nelle more quelle arrivate dalla Cina vanno bene.

Insomma, meglio feriti che morti. “Premesso che alla data odierna (9 aprile) si registra l’assoluta indisponibilità di tute protettive della categoria 4 per il rischio biologico, certificate secondo gli standard europei (Norma UNI-EN) – è scritto nella nota – si rileva la necessità di contenere la propagazione dell’epidemia, cosa che può essere assicurata solo attraverso meccanismi di barriera e protezione”. Si tratta di un modello di tute di protezione certificate secondo gli standard in vigore nella Repubblica Popolare Cinese (GB 19082-2009), “e che tali standard, sovrapponibili a quelli europei (UNI-EN) in vigore in Italia, si sono rivelati adeguati al contenimento dell’epidemia”.

E siccome meglio quello che niente: “… nelle more dell’avviato iter formale di riconoscimento dell’attestazione da parte dell’Inail, non può che ridurre i rischi innanzi richiamati, mentre il non utilizzo di alcuna barriera meccanica di protezione espone a rischio certo, si ritiene che la tuta IWODE Protection cod. fh 37001-3 possa essere utilmente distribuita ed utilizzata presso tutte le strutture preposte quale barriera meccanica di protezione”.

Medici e infermieri – non essendo specificato – si stanno chiedendo se per tutte le strutture s’intenda anche quelle covid. Anche in questo caso, di usare alla bisogna quelle tute cinesi ce lo dice l’Europa. Il punto 8 della Raccomandazione UE del 13 marzo scorso sostiene che “nel contesto della minaccia rappresentata dal covid-19 anche i DPI o i dispositivi medici privi della marcatura CE  potrebbero essere valutati e far parte di acquisti”. Di conseguenza – fa sapere la task force della Protezione Civile Pugliese “si dispone l’immediata distribuzione della tuta protettiva in oggetto richiamata”.

La questione è spinosa, non tanto per le fattezze della tuta. Del resto, se manca in tutto il mondo c’è poco da fare. Ad aver fatto scoppiare le polemiche è soprattutto la mancanza di comunicazione al personale sanitario a cui è destinata quella tuta, anche nelle strutture covid. Il primo a intervenire sulla questione è stato il presidente dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche, Saverio Andreula.

“La tuta è utilizzabile esclusivamente per la protezione meccanica e non com’è in obbligo per la protezione dai rischi di contaminazione buologica”, scrive Andreula al presidente della Regione Puglia e a tutti i vertici sanitari di Policlinico e Asl. “Le tute distribuite al personale sanitario in area Covid 19 – continua Andreula – in Cina sono state utilizzate per le sole attività di sanificazione degli ambienti, poiché hanno le certificazioni standard cinesi di utilizzo proprio, non sovrapponibili agli standard europei. Si aggiunge che il modello in esame non è in elenco dei dispositivi medici certificati dall’Inail”.

Il presidente degli Infermieri, continua fornendo un’indicazione presente sulla confezione della tuta incriminata: “È severamente proibito l’utilizzo in luoghi con stretto controllo di tasso di microbiologicità in area di isolamento per il controllo di pazienti con gravi patologie”. La contestazione dell’OPI è quella fatta da tutti i sanitari: “Al momento della consegna, al personale viene nascosta la conoscenza delle caratteristiche tecniche e il rischio a cui è sottoposto nell’uso di un indumento di lavoro non conforme cui si aggiungono i calzari fabbricati in proprio con le buste di immondizia”.

La richiesta di Andreula ai direttori generali è chiara. “Diffidiamo i datori di lavoro a consegnare in uso del personale sanitario impegnato nelle aree Covid 19 le tute in oggetto- tuona il presidente OPI Bari -, con la richiesta di fornire ai lavoratori i DPI conformi alla legge che hanno le certificazioni di contenimento del rischio biologico e rispondono agli standard di legge”.

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Pronto soccorso Perinei, Papappicco a Dibello: “In palese il conflitto col 118. Nulla giustifica il rifiuto di un codice rosso”

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Le spade sono sguainate. Tra il coordinatore del 118 Barese Antonio Dibello e il medico-sindacalista Francesco Papappicco siamo ormai alla sfida per la verità. Dopo l’episodio denunciato su Facebook dallo stesso Papappicco in molti credono sia arrivato il momento di approfondire il contenuto delle denunce arrivate dalla trincea. La faccenda in questione – alla quale i parenti del paziente hanno assistito attoniti – è datata 24 aprile.

Tralasciamo i dati tecnici e specialistici, ma la storia merita senza dubbio di essere raccontata per il bene di un’intera comunità. “Intorno alle 16.30 del 24 aprile – scrive il medico del 118 in servizio sull’ambulanza della postazione di Gravina – la Centrale operativa chiama per un codice giallo. L’equipaggio si barda nonostante i DPI di bassa qualità a disposizione: tute cinesi di taglia striminzita, mascherine altrettanto scadenti, occhiali-visiera e buste per l’immondizia ai piedi”.

Ai parenti del paziente era stato consigliato di chiamare il 118 a causa di alcune anomalie nelle analisi del sangue del giorno prima. L’uomo, però, inizia a peggiorare fino al coma. La situazione è molto seria. Da qualche tempo ha febbre e tosse. Lo spettro del coronavirus è sempre in agguato anche se potrebbe trattarsi di altro. “Non ci sono le condizioni né il tempo per diagnosi di fino o per scrivere tutto – continua Papappicco -. Mentre stabilizziamo il paziente spiego la situazione ai parenti. Tutti bardati e in urgenza è difficile pure la compilazione della scheda digitale. Ci prepariamo per portarlo in ambulanza sotto monitoraggio e con l’ossigeno”.

Da questo momento la vicenda potrebbe essere sfuggita di mano. Il medico del 118, infatti, prova a spiegare telefonicamente alla sua centrale operativa la gravità della situazione, ma gli viene detto che al pronto soccorso dell’ospedale della Murgia non può essere accettato nessuno perché è in corso l’ennesima sanificazione da quando è scoppiata la pandemia. Gli animi si scaldano e nonostante tutto Papappicco decide di portare ugualmente il paziente all’ospedale Perinei, chiedendo l’intervento dei Carabinieri per cercare di ottenere l’immediata presa in carica del paziente.

A complicare tutto c’è un guasto all’ambulanza, che non consente al mezzo di soccorso di procedere a una velocità superiore 50-60 chilometri orari. Una pattuglia di Carabinieri si trova già in ospedale per altri motivi. Papappicco li raggiunge chiedendo loro assistenza. Giungono in ospedale anche i parenti.

“Mentre seguiamo il percorso verso l’area covid, che risulta chiusa – racconta il medico – un infermiere del pronto soccorso apre la porta anti panico della zona cosiddetta pulita e ci dice di entrare”. Il personale fa quadrato attorno al direttore Dibello. “Ci bloccano col paziente in quelle condizioni e veniamo subissati di improperi e accuse di aver contaminato la zona”, prosegue il medico. L’incontro con Dibello è inevitabile. La tensione è altissima. Il paziente ha bisogno di cure immediate. I due sono uno di fronte all’altro mentre un altro collega, imprecando, chiede all’equipaggio chi gli avesse permesso di entrare in quella zona, quando si sarebbe dovuto dirigere addirittura in Utic.

Se possibile, nonostante la presenza delle Forze dell’Ordine, la situazione diventa ancora più tesa. Il paziente sta morendo a leggere a quanto viene denunciato. A quel punto Dibello avrebbe tagliato corto. “Il medico del kaiser! Tu sei pazzo, tu sei pazzo! non puoi fare questo lavo. Non ne sei in grado, uscite fuori! Andate via da qui”, aggiunge allibito Papappicco. La versione scritta dal medico del 118 su Facebook coincide con quella verbalizzata dai Carabinieri, confermata dalla figlia del paziente, che nel frattempo ha rilasciato su chiamata registrata la versione di quanto accaduto prima dell’arrivo del 118 a casa.

Ma qual è stata la conclusione? Il paziente è finito di lì a poco in rianimazione ed è morto il giorno dopo. È a questo punto che Papappicco rilancia e chiede approfondimenti. “Dibello – dice rivolgendosi al coordinatore – l’odio viscerale che provi nei miei confronti e anche nei confronti della dottoressa Francesca Mangiatordi, risalente alle cronache di 5 anni fa – non dovrebbe in alcun modo compromettere l’efficienza della catena dei soccorsi”. A comunicare la situazione sarebbe stato il personale della Centrale Operativa.

“Mi hanno detto che il pronto soccorso sarebbe stato non accessibile per la sanificazione degli ambienti a causa dell’effettuazione di tamponi al personale sanitario in attesa di esito dopo le 20 – spiega Papappicco – e che addirittura questa cosa era nota fin dalle 10 del mattino, nonostante alcuna comunicazione di chiusura del pronto soccorso sia stata ufficializzata alle autorità competenti”. In molti si chiedono se questo sia l’atto finale di una storia fatta di grandi tensioni e reciproche accuse.

“In qualità di direttore di quel pronto soccorso e coordinatore del 118 aziendale – tuona il medico al dirigente – chiedo a te di giustificare quanto accaduto, di andare fino in fondo stavolta e di dimostrarti all’altezza delle accuse e calunnie gratuite proferite nei miei confronti e contro il mio equipaggio. Tacciati, aggrediti, vilipesi e cacciati dal tuo pronto soccorso solo per aver agito in scienza e coscienza, solo per aver tentato di salvare una vita umana con dignità e nel migliore dei modi. Se sono pazzo o ancor più ritieni sia stato negligente, imprudente e imperito forse hai ragione tu, non sono all’altezza di questo lavoro, non posso farlo, non devo! Ma se avrai difficoltà a dimostrarlo come già accaduto tempo fa, non ti rimane che fartene una ragione e tentare un’altra strada per farmi fuori o prendere in seria considerazione l’ipotesi di dimetterti o passare a migliore incarico”.

Dal canto nostro restiamo a disposizione di qualunque medico o infermiere del pronto soccorso dell’Ospedale della Murgia, dello stesso direttore Antonio Dibello e dei familiari del paziente qualora volessero fornire conferme o versioni diverse da quella resa pubblica dal medico del 118 Francesco Papappicco.

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Gravina, corsa al Miulli salva paziente da secondo infarto: “Emodinamica al Perinei è solo una promessa elettorale”

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Salvato per la seconda volta in tre anni dall’intuizione del medico del 118, mentre all’ospedale della Murgia si stendevano tappeti rossi per l’inaugurazione dell’Emodinamica, dove in ogni caso non avrebbe potuto essere sottoposto alla coronografia fatta all’ospedale Miulli.

La storia di Mario Lorusso, di Gravina, è l’esempio calzante di quanto mare possa esserci tra il dire e il fare. La polemica scatenata dalle dichiarazioni entusiaste del consigliere regionale Enzo Colonna, alle quali hanno fatto da eco quelle più realistiche del medico 118 Francesco Papappicco, vengono spente da un evento incontrovertibile.

Tre anni fa raccontammo la storia del signor Lorusso, salvato da un brutto infarto dall’equipaggio 118 di Gravina. La sua vicenda commosse e indignò migliaia di cittadini murgiani, costretti ad autentici viaggi della speranza lontano da Gravina e Altamura.

Il 5 settembre scorso, nel bel mezzo di annunci e proclami, succede l’impensabile. “Sabato sera – racconta Mario – mi sentivo bene. Sono andato a trovare il dottor Papappicco in postazione a Gravina per salutarlo. Tra una chiacchiera e l’altra gli ho detto che ultimamente durante la giornata avvertivo delle fitte strane al cuore e al braccio, alle quali non ho dato molto peso perché duravano al massimo una ventina di secondi”.

Il medico decide di sottoporre l’uomo a un controllo. “Mentre mi faceva fare l’elettrocardiogramma in ambulanza – racconta Mario – ho visto che cambiava espressione, ordinando a un infermiere di farmi una flebo. Non potevo crederci, stavo rivivendo quanto accaduto tre anni prima, solo che non avevo gli stessi sintomi. L’altra volta, infatti, ero andato in postazione perché non stavo affatto bene”.

Il paziente andava trasportato in ospedale per l’esame degli enzimi del cuore. “Anche in questo caso la squadra del 118 ha deciso di trasportarmi direttamente all’ospedale Miulli, per evitare di perdere tempo alla Murgia”.

La scelta si è rivelata preziosa. “Ho avvisato i miei familiari e il dottore mi ha fatto una terapia con le flebo – aggiunge -. La centrale del 118 ha preso atto della decisione del medico e mi hanno portato ad Acquaviva. Non era stato attivato il percorso per l’angioplastica, ma il 118 mi ha portato lo stesso lì. Arrivati al pronto soccorso il dottor Papappicco mi ha fatto subito fatto visitare e ha spiegato ciò che era successo a una collega. Poi, quando mi hanno fatto controllare dal cardiologo mi hanno ricoverato in UTIC perché i tracciati non gli piacevano. Anche qui ho riferito tutto e mi hanno fatto prelievi, messo in monitoraggio prima di sottopormi a una coronografia”.

Mario Lorusso è stato fortunato anche in questo caso, ma la sua domanda è lecita: “È possibile che ci si debba affidare sempre alla sorte o alla professionalità del personale del 118?”. L’ambulanza è solo una e può servire per altre urgenze o, al contrario, in occasione di eventi particolarmente seri potrebbe già essere impegnata altrove.

“Se non avessi fatto l’elettrocardiogramma e trovato il dottore e la sua squadra – denuncia sconfortato Mario – non sarei andato neanche in ospedale, perché non davo importanza ai sintomi che avevo ultimamente, anche se avevo già avuto un infarto. Faccio sempre la terapia e i controlli, ma quando sabato Papappicco mi ha fatto il tracciato è stata una doccia fredda perché non immaginavo che sarei finito di nuovo in UTIC con l’ambulanza del 118. Loro corrono per salvarci, ma la distanza e il tempo si allungano. Da anni aspettiamo l’Emodinamica per gli infarti alla Murgia e oggi che sono qui e al Perinei dicono dell’inaugurazione, so anche che i pazienti con l’infarto dovranno ancora salvarsi col 118 e andare lontano a fare l’angioplastica e le terapie intensive. Le speranze sono state deluse ancora una volta e devo dire che non credo più alle promesse politiche. Spendono tanti soldi per cose meno importanti e poi si ricordano di noi solo alle elezioni tanto chi rischia la vita siamo noi”.

In questi casi, lo dicono i protocolli, solo la tempestività della diagnosi e il trattamento corretto, può evitare che le ischemie come quella che ha colpito Mario Lorusso possa diventare un infarto. All’ospedale della Murgia di tempo se n’è perso e se ne continua a perdere ancora troppo, pur essendo considerato un’eccellenza dalle autorità sanitarie regionali.

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Gravina, 37enne d’urgenza al Miulli per problemi cardiaci. Papappicco: “Emodinamica al Perinei ancora un miraggio”

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Ore 7 circa, un 37enne di Gravina ha una sincope e cade al suolo in casa. Rimane privo di coscienza per qualche minuto, poi, aiutato dai genitori, si riprende. È sudato e appare frastornato. Chiamato a intervenire, sul posto arriva il 118, l’uomo viene visitato e valutato dai sanitari. Il 37enne è in buona salute e non assume farmaci per patologie degne di nota.

Non accusa dolore al petto, ma quanto accaduto induce il dottor Papappicco, capo equipaggio, ad approfondire la situazione. L’elettrocardiogramma mostra un tracciato anomalo, tanto che il medico viene chiamato dalla telecardiologia per un riscontro clinico e un confronto col collega cardiologo. Il tracciato riporta “ST sopraslivellato in sede infero-laterale, T negative” e indicazione scritta a “valutazione cardiologica urgente presso centro con emodinamica”.

Ironia della sorte, si tratta proprio della situazione che Papappicco ha recentemente denunciato a mezzo stampa, quando ha dovuto smorzare gli entusiasmi del consigliere regionale Enzo Colonna in occasione dell’inagurazione attesa per ben 4 anni.

Dove portare il paziente a questo punto? La telecardiologia non attiva il percorso stemi per un’emodinamica HUB, ma ciononostante dà indicazione urgente ad una valutazione specialistica in un ospedale con emodinamica. Dunque, stando ai proclami pre-elettorali, anche il Perinei potrebbe essere considerato adeguato al caso.

Seguono vari tentativi di chiamate al Pronto Soccorso e in cardiologia, invano. Viene deciso di portare il 37enne al Miulli e inizia così l’ennesima corsa verso Acquaviva. “La Murgia non è attiva per le urgenze” ribadisce la centrale operativa, e quand’anche in questo caso non sia stato attivato il percorso IMA-SCA, l’opzione migliore concordata tra Papappicco e il collega di centrale è stata il trasferimento diretto.

«Questi sono fatti concreti, documentabili e verificabili – sottolinea il medico 118 e sindacalista – è esattamente ciò che accade alle persone, anche giovani e in buona salute e non di rado».

«Le polemiche le lascio agli esperti del settore – aggiunge – le propagande sull’emodinamica “dove si cureranno gli infarti” a chi fa solo questo di professione. Ad urne ancora fumanti mi sia consentito almeno riportare costoro “alle cose stesse”, per dirla come Husserl, a dimostrazione del fatto che i filosofi, e tra questi molti un tempo erano anche medici, non sono persone che se ne vanno bighellonando tra le nuvole a vendere aria fritta».

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Sanificazione inadeguata e tardiva, paralizzato il sistema 118. Dalla centrale all’automedica: “Abbiamo solo voi”

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L’inadeguatezza della sanificazione dei mezzi del 118, appaltata a un’azienda diversa rispetto a quella che l’ha gestita finora, sta paralizzando il sistema barese dell’emergenza-urgenza. Quella appena trascorsa è stata una notte drammatica, alla ricerca disperata di un’ambulanza libera.

La postazione India del Giovanni XXIII è rimasta bloccata dalle 23, quella Policlinico da mezzanotte, mentre Japigia dall’una. E allora la centrale non ha potuto far altro che rivolgersi all’automedica Bari 1: “Abbiamo solo voi”. È stato questo il mantra che ha costretto l’equipaggio a 7 interventi notturni oppure la postazione di Palese a recarsi su un intervento a Ruvo di Puglia. Il discorso non sarebbe diverso sulla Murgia, zona di riferimento dell’ospedale Perinei. L’automedica di Altamura e la postazione di Poggiorsini sono rimaste a lungo bloccate per la sanificazione. Ore di attesa al freddo anche per il personale che non ha luoghi al chiuso dove sanificarsi le tute e spogliarsi. E se non prendi il coronavirus ti raffreddi essendo sudati fradici al termine di un qualsiasi intervento in cui ci si è dovuti bardare di tutto punto come stabilito da una comunicazione del caposala del coordinamento barese del 118, Domenico Liberio. Una comunicazione che invita a bardarsi ad ogni intervento (pubblicata nella galleria fotografica ndr.), ma che non menziona affatto la sanificazione.

“La questione è molto più complicata di ciò che possa sembrare ad alcuni burocrati – spiega Francesco Papappicco, sindacalista e medico del 118 – le ore di fermo potrebbero configurarsi come interruzione di pubblico servizio, con tutti gli aggravi del caso. Per quando riguarda la sanificazione dei mezzi e del personale, poi, c’è molto da dire. Se scrivi una disposizione in cui veniamo obbligati a indossare tutti i dispositivi di protezione non puoi non prevedere un protocollo per la sanificazione, che adesso viene fatto alla garibaldina, senza che il coordinamento del 118 passi alcol o altri prodotti per la sanificazione personale degli operatori o stabilisca cosa farne della tuta impiegata sugli interventi. È come aver detto l’abc, ma essersi dimenticati del resto dell’alfabeto. Che dire poi dei luoghi di vestizione e svestizione. Mentre sanificano in modo opinabile il mezzo noi siamo all’esterno, col rischio di ammalarci. Non abbiamo luoghi e prodotti adeguati. Restiamo per strada al freddo. La sanificazione personale è zero”.

Per fortuna e solo per quella nessuno ci ha lasciato la pelle, ma il sistema di sanificazione rischia di avere pesantissime conseguenze sulla salute pubblica oltre che sull’organizzazione di tutto il sistema dell’emergenza-urgenza. I problemi sono molteplici. Stando alle notizie che giungono dalla trincea, pare non vengano usati i prodotti previsti dal protocollo inviato dalla Asl al vecchio gestore. Si sarebbe passati dal panno monouso allo spruzzino; dall’ipoclorito di sodio e prodotti a base di idrogeno allo 0,5 per cento, ovvero etanolo al 71 per cento, ad altro tipo di sostanze che aumentano i dubbi sull’efficacia degli interventi.

Senza contare il fatto che l’apparecchio impiegato dall’azienda, a quanto pare nuova a questo genere di operazioni, ha bisogno della corrente elettrica per funzionare. Non sempre la sanificazione può avvenire in prossimità di una presa. E allora, solo per fare un esempio, al pronto soccorso dell’ospedale San Paolo di Bari hanno dovuto sistemare una prolunga e tirare il filo all’esterno per agevolare la sanificazione dei mezzi. In questo periodo si tratta di un grosso problema, perché i ritardi si accumulano.

Nel caso di infarti o traumi particolarmente gravi la tempestività è essenziale, vanificarla con ore e ore di attesa per una sanificazione che precedentemente avveniva in 30, forse 40 minuti, mette tutti a rischio. Il coronavirus non è la sola emergenza da affrontare. Non sappiamo cosa abbia spinto la Asl di Bari a riaffidare il servizio. In tanti si aspettavano un miglioramento, invece la situazione è precipitata. La speranza di tutti è quella di non averlo fatto per risparmiare soldi. In fondo se siamo arrivati a questo punto, come dice il ministro Azzolina, ovvero a un sistema sanitario regionale inadeguato, è a causa dei tagli e dei risparmi a cui si è proceduto finora.

Va aggiunto che il Co.E.S. aveva proposto un progetto che regolarizzava le sanificazioni e abbatteva i costi con sanificatori in tutti i mezzi, archetti sanificanti in tutti i Centri COVID e DPI personali riutilizzabili.

“Se avessero speso danaro pubblico per fornire sanificatori ad ogni postazione – denuncia Papappicco – avremmo risparmiato centinaia di euro per intervento e ognuno avrebbe provveduto a una più accurata sanificazione personale, dei mezzi e delle singole postazioni in tempi stabiliti. Ma forse i nostri suggerimenti in forza al buon senso e all’efficienza non sono paragonabili agli scriteriati e mercenari interessi di chi rimane nei palazzi a decidere del destino di equipaggi e pazienti”.

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Coronavirus Bari, lunghe attese ai pronto soccorso e sanificazione ambulanze in tilt: la giornata nera del 118

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Quindici ambulanze in coda per la sanificazione all’ospedale Di Venere, ore e ore fuori dai pronto soccorso in attesa di sbarellare un paziente, la risposta tardiva alla richiesta di soccorso perché l’intero territorio Barese era scoperto.

Ieri è andata in scena la giornata nera del sistema di emergenza-urgenza pugliese. Siamo in emergenza, tutto vero, ma per mesi tutte le autorità sanitarie nazionali, regionali e locali hanno annunciato una seconda ondata di coronavirus. Neppure questo è servito a limitare i disagi che ieri hanno trovato l’espressione più grottesca.

Abbiamo trascorso sei ore tra l’ospedale barese Di Venere e il Perinei di Altamura per documentare quanto succedeva di minuto in minuto. Tutto e il contrario di tutto, circolari discutibili, almeno come il cambio d’appalto per la sanificazione dei mezzi, tensioni fra operatori del 118 e centrale operativa, vertici in evidente stato confusionale tanto da ripristinare il sistema operativo di sette mesi fa.

Le parole trovano il tempo che trovano, per questo abbiamo cercato – seppure sintetizzando – di condividere con voi il più possibile quei minuti concitati e paradossali.

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